lunedì 9 aprile 2018

Bob Dylan a Mantova, 8 aprile 2018

Ieri sera a Mantova, al Palabam, per il mio ventesimo concerto dylaniano. Sala affollatissima (non di marinai, penso) e puntualità al minuto, come sempre, da parte di Bob Dylan. Questa è una cosa che ho sempre apprezzato perché significa professionalità (che anche in un artista sommo come lui non guasta) e rispetto per il pubblico. Apprezzo meno che parte del pubblico non manifesti lo stesso rispetto e arrivi a concerto già iniziato costringendo gli altri ad alzarsi per consentire ai ritardatari di prendere posto.

Avevo letto alcune recensioni che lamentavano lo stato della voce di Bob Dylan, ma devo dire che, invece, la voce è in ottima forma, soprattutto rispetto a qualche anno fa. Il cantato è sempre preciso e le parole molto spesso distinguibili (il che è tutto dire, come ogni dilaniano ben sa). La band è compatta e ormai perfettamente rodata. La formazione è la stessa da tempo e questo si riflette nella performance: l’immarcescibile Tony Garnier al basso, George Recile alla batteria, Sto Kimball alla chitarra ritmica. Charlie Sexton alla chitarra solista e poi il multistrumentista Donnie Herron. Dylan invece suona il piano. Il che ci porta alla prima considerazione. Dopo la chitarra (ormai assente in pianta stabile dal 2003), sembra essersene andata anche l’armonica che sino a un paio d’anni fa era una coloritura immancabile dei concerti dylaniani. La cosa, devo dire, mi dispiace. Ricordo che la prima cosa che facevo anni fa quando usciva un nuovo disco di Dylan era di guardare nel retro copertina del vinile la composizione della banda e controllare se Dylan suonava l’armonica. Se lo faceva - quasi sempre lo faceva, ma non sempre - ero rassicurato. Per qualche motivo, il suono dell’armonica di Dylan ha sempre avuto un fascino particolare. E non solo per me. Comunque, così stanno le cose e bisogna prenderne atto.

Il concerto è stato molto buono. Se n’è andato l’intervallo a metà concerto e l’esibizione è tornata compatta con solo la breve pausa prima dei bis. La scaletta è stato un bilanciato insieme di canzoni vecchie e nuove, con un contorno delle ormai famigerate cover sinatriane che, peraltro, non sono niente male e sono state particolarmente apprezzate dal pubblico, con applausi a scena aperta (durante l’esecuzione, cioè).

L’esordio, come ormai sempre avviene da anni, è stato con Thing Have Changed, una canzone formidabile che aveva trovato qualche anno fa la sua forma perfetta e trascinante. Dato che però Dylan non riesce a stare fermo, quella perfezione è stata abbandonata alla ricerca di un nuovo arrangiamento che mantiene la potenza della canzone, ma, a mio avviso, in qualche modo risulta meno perfetto, più instabile, anche a causa di qualche strana incertezza della band nella parte iniziale del brano. Resta comunque una canzone ottima, con un testo perfettamente adatto ai nostri tempi.

Don’t Think Twice, It’s Alright è stata cantata in modo molto sentito, con una profonda adesione alle parole di quella che resta un canzone capolavoro, una canzone di indipendenza, per così dire. l’arrangiamento, uno dei tantissimi cui questa canzone è stata sottoposta, è molto azzeccato: lento, coinvolgente, con la voce di Dylan in grande evidenza.

Highway 61 Revisited è un vecchio cavallo di battaglia che mantiene sempre la sua forza trascinante e anche questa volta non tradisce.

Simple Twist of Fate, una delle migliori canzoni da un album capolavoro (Blood on the Tracks), è stata presentata in una versione ottima, rallentata e sentita. Anche in questo caso, Dylan l’ha cantata con grande adesione al testo.

Duquesne Whistle, la canzone d’apertura del suo ultimo album di originali in studio (Tempest), mi era sembrata un po’ incerta in altre versioni dal vivo, ma questa volta, pur un po’ imprecisa nell’avvio, si è poi manifestata in una versione trascinante e coinvolgente.

Melancholy Mood, la prima delle cover cosiddette “sinatriane”, ha visto Dylan abbandonare il piano e, da consumato crooner, esibirsi a centro palco con il microfono in mano. L’effetto è stato notevole e la performance vocale molto attenta.

Honest With Me è un’altra di quelle canzoni dal ritmo trascinante che fanno sempre il loro effetto dal vivo pur non essendo, in questo caso, una canzone di particolare valore.

Tryin’ To Get to Heaven è una delle migliori canzoni di un altro album capolavoro (Time Out of Mind). L’arrangiamento attuale è molto diverso da quello, perfetto, dell’album ed è un po’ difficile da riconoscere. L’esito è inferiore alla versione da studio perché non sembra esserci perfetta sincronia tra il cantato e l’accompagnamento: sembra mancare precisione e condivisione. La canzone resta però potente per quello che dice - la metafora principale è suggestiva (cercare di arrivare in Paradiso prima che chiudano la porta) - e per come Dylan lo dice.

Once Upon a Time, seconda cover “sinatriana”, è un altro pezzo d’atmosfera, reso in modo molto buono.

Pay in Blood è un’altra canzone da Tempest: tagliente e sulfurea, è stata resa con un’esecuzione selvaggia e “cattiva”, come deve essere.

Tangled Up in Blue, altro classico da Blood on the Tracks, è stata presentata in una versione intensa e suggestiva, con un arrangiamento molto lontano da quello originale, ma capace di mantenere intatta la forza della canzone.

Early Roman Kings, un bluesaccio da Tempest è, come Honest With Me, una canzone decisamente minore che però ha una forza ritmica che la rende di particolare efficacia dal vivo. Anche questa volta non ha tradito, sotto questo profilo.

Desolation Row, super classico, è una canzone che non tradisce mai. Trascinante e coinvolgente, è stata eseguita con bravura e sentimento da Bob Dylan cui si può perdonare se nell’occasione ha ripetuto due volte la stessa strofa. Uno dei punti massimi del concerto.

Love Sick, da Time Out of Mind, è una di quelle rare canzoni che Dylan non ha mai sentito l’esigenza di modificare. L’arrangiamento, potente e suggestivo, è praticamente rimasto sempre lo stesso della versione originale in studio: l’atmosfera di distacco e di consapevolezza che il testo crea viene accompagnato benissimo dalla musica con un effetto di notevole compiutezza.

Autumn Leaves è stata la terza e ultima cover “sinatriana”, anche stavolta molto ben accolta dal pubblico e molto ben eseguita.

Thunder on the Mountain, la famosa canzone in cui Dylan cita Alicia Keys, è un’altra di quelle canzoni che dal vivo risultano certamente migliorate, anche per il loro ritmo trascinante. Di rilievo l’assolo batteristico di George Recile che ha richiamato alla memoria certi assoli che erano frequenti negli anni ’70. Notevole l’esecuzione, nel complesso.

Soon After Midnight, canzone romantica per eccellenza e azzeccato accompagnamento dylaniano delle sue cover sinatriane, ha svolto alla perfezione il suo compito di contrappasso tranquillo e suggestivo dopo lo scatenamento della canzone precedente.

Long and Wasted Tears, capolavoro da Tempest, è una canzone che, nella sua concisione e precisione, rasenta la perfezione nella rappresentazione delle inevitabile asperità relazionali di coppia: Dylan l’ha cantata come sempre con grande partecipazione emotiva, in un arrangiamento che riprende l’originale, ammorbidendolo.

È stata poi la volta dei bis, il primo dei quali è stato una versione trascinante di Blowin’ in the Wind e il secondo un’interpretazione ottima di un’altra canzone che non tradisce mai, Ballad of a Thin Man.

Alla fine, pubblico in piedi e applausi sentiti. Anche questa volta, niente male.


Per la precisione, la foto qui sopra l'ho scattata un'ora prima del concerto: la sala si è poi riempita.

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