lunedì 28 marzo 2016

De Gregori canta Bob Dylan

Con il dovuto sfasamento temporale (ovvero, in ritardo), due parole sul nuovo disco di Francesco De Gregori, De Gregori canta Bob Dylan - Amore e furto. L’operazione è interessante e di certo animata da buone intenzioni. Così come Dylan ha spesso fatto cover di canzoni altrui, molti hanno fatto cover delle sue canzoni, spesso dedicandogli interi album, come nel caso di De Gregori (uno dei dischi più famosi in questo senso è quello degli Hollies, negli anni che furono). Quando la cover viene fatta in inglese non c’è problema, se non quello della sua qualità. Nel caso invece in cui si voglia tradurre Dylan in altre lingue sorge il vero problema, che è poi quello anche delle “semplici” traduzioni dei testi dylaniani: mantenersi fedeli e rendere al tempo stesso la qualità letteraria e il senso dei versi. Non facile, come è dimostrato dalle varie traduzioni succedutesi negli anni (le ultime, quelle di Alessandro Carrera, giustamente celebrate, sono le migliori, ma anch’esse, inevitabilmente, presentano punti controversi). Inoltre, le traduzioni che devono essere cantate presentano un ulteriore problema, quello della cantabilità, appunto. Più adattamenti che semplici traduzioni, quindi.

Tutto questo, naturalmente, non era ignoto a De Gregori che si è comunque cimentato nell’impresa ben sapendo che avrebbe potuto andare incontro a critiche, ma, penso, comunque deciso a fare qualcosa che sentiva il bisogno di fare, anche per andare alle radici della propria autorialità. Quindi, indipendentemente dai risultati, è un tentativo che apprezzo in quanto tale e trovo del tutto legittimo. A parte questo, i risultati mi sembrano nel complesso più che buoni.


La scelta delle canzoni, innanzi tutto. Di fronte al mare magnum della produzione dylaniana, De Gregori ha operato delle scelte interessanti. In primo luogo bisogna considerare un aspetto talvolta sottovalutato. Diversamente da molti cantautori che soprattutto “parlano” - pensate a De Andrè o, in campo internazionale, a Leonard Cohen - Dylan è un cantante, cioè canta. De Gregori si situa in una via di mezzo, ma, mi pare, è più “parlante” che “cantante”. Ciò significa che una scelta delle canzoni di Dylan da eseguire andava - ed è stata, in larga misura - fatta anche in relazione al range vocale di De Gregori, alla sua tipologia di “voce”. Che poi, ovvio, si possa adattare al proprio modo di cantare qualsiasi canzone va da sé, ma non è questo il punto (lo stesso Dylan, oggi come oggi, ha un’estensione vocale ben diversa da quella che aveva una volta). Tenuto conto di questo, comunque, De Gregori ha scelto canzoni da tutti i periodi dylaniani, evitando le canzoni più famose e perciò più ovvie. Delle 11 canzoni del disco, 3 vengono dagli anni ’60, 2 dagli anni ’70, 3 dagli anni ’80 (anche se Series of Dreams potrebbe essere considerata appartenente, per vari motivi, agli anni ‘90 e, in effetti, I Shall Be Released agli anni '60 anziché ai '70), 2 dagli anni ’90 e 1 dagli anni 2000.


In tutti i testi di De Gregori c’è una certa misura di “infedeltà” all’originale, ma in tutti c’è l’evidente tentativo di una fedeltà complessiva, la ricerca di una resa globale del senso della canzone, del suo significato. Come detto, più che semplici traduzioni, sono le versioni degregoriane di canzoni dylaniane. E in questo senso vanno apprezzate. Se uno vuole ascoltarsi l’originale, può sempre farlo. Anzi, è probabile che più di qualche fan di De Gregori sia portato a farlo e ciò stesso basterebbe a garantire l’utilità dell’operazione. Del resto, il cd contiene un apprezzabile booklet con i testi a fronte di De Gregori e Dylan di tutte le canzoni. Come a dire, non c’è trucco, non c’è inganno: questo è l’originale e questo è quello che ho fatto, valutate voi e apprezzate entrambi. Anche il sottotitolo del disco, Amore e furto, sottolinea questo aspetto rimandando al titolo di un famoso disco di Dylan de 2001 che, a sua volta, era la citazione di un altro titolo. Suggestioni, spunti, imitazioni, omaggi: tutto si rincorre, nel campo della cultura. Ma vediamo le canzoni una per una.


Un angioletto come te (Sweetheart Like You, da Infidels, 1983) è una canzone che si adatta molto bene alla vocalità di De Gregori, che infatti la esegue in modo magistrale. La canzone in sé è a mio avviso molto bella, ma a suo tempo provocò critiche - da politically correctness ante litteram - soprattutto nel verso in cui alla ragazza del titolo viene detto che il suo posto sarebbe a casa a prendersi cura di qualcuno. De Gregori aggira il problema con abilità: il suo “Facevi meglio a restare a casa/E non andartene in cerca di guai/Dovresti amare chi ti vuol bene/E non vorrebbe farti piangere mai” rende bene l’idea senza incorrere in accuse di sessismo. Meno brillante, forse, il punto in cui Dylan cita con sarcasmo una famosa frase di Samuel Johnson (1709-1784): “Patriotism is tha last refuge of a scoundrel” (il patriottismo è l’ultimo rifugio del farabutto). Una frase che, soprattutto in politica, ha ancora una sua indubbia attualità. Dylan scriveva: “They say that patriotism is the last refuge/ to which a scoundrel clings”. De Gregori la traduce in modo un po’ asettico: “Qualcuno ha detto che l’amor di patria/è l’ultimo rifugio che c’è”, perdendo in questo modo il riferimento al farabutto, allo scoundrel, che per me era molto importante nell’economia della frase, dandole un senso specifico. Peccato veniale, comunque. In molti altri punti, De Gregori si prende delle legittime libertà (i riferimenti biblici, per esempio, scompaiono) e il risultato finale, anche musicalmente, è molto gradevole.


Servire qualcuno (Gotta Serve Somebody, da Slow Train Coming, 1979), canzone del cosiddetto periodo cristiano. Tra le più famose di quel periodo, anche se non mi ha mai entusiasmato: è il genere di canzoni che mantiene un po’ troppo l’effetto da “lista”, l’accumulo/iterazione. De Gregori ne fa una versione accettabile. L’adattamento è agile pur con molte variazioni e qualche acrobazia per giungere alla rima (rabdomante/amante). Là dove Dylan ironizzava su Bobby e Zimmy, De Gregori ci propone Ciccio e Generale e direi che la similitudine ci sta.


Non dirle che non è così (If you see her, say hello da Blood on the Tracks, 1975) la conoscevamo già perché una versione di De Gregori era già stata inclusa nella colonna sonora del film Masked and Anonymous (2003) scritto e interpretato da Bob Dylan. Particolarità di quella colonna sonora era quella di essere composta - a parte alcuni brani interpretati da Dylan - da cover internazionali di canzoni dylaniane. La versione che De Gregori propone qui mantiene la delicatezza dell’originale ed è uno degli highlight del disco.


Via della povertà (Desolation Row da Highway 61 Revisited, 1965), anche questa era già nota nella versione di Fabrizio De Andrè firmata anche da De Gregori. È rimasta famosa anche la versione trasfigurata che De Andrè eseguì nel tour del 1975, con nomi del mondo politico e giornalistico a sostituire quelli del testo originale. In questo caso, De Gregori rivede la sua versione, ma la complessità e le sfumature dell’originale sono inarrivabili. L’esecuzione è nel complesso valida, comunque, pur con tutti i limiti derivanti da una semplificazione a volte poco efficace. Un piccolo esempio: nell’ultima strofa, Dylan, con notevole ironia, canta “Yes, I received your letter yetserday/About the time the doorknob broke” e De Gregori adatta, perdendo di efficacia, “La tua lettera è arrivata proprio ieri/Quando è mancata l’elettricità”. Però è da apprezzare che De Gregori sia tornato sulla propria (e di De Andrè) versione di tanti anni fa per cercare di migliorarla, cambiando in molti punti la traduzione. Per chi è familiare con la versione cantata da De Andrè, la cosa potrebbe non essere positiva, ma bisogna essere invece aperti alle riscritture, consuetudine cui gli appassionati dylaniani sono abituati.


Come il giorno (I Shall Be Released da Greatest Hits II, 1971) è una canzone minore del pantheon dylaniano, ma ha avuto i suoi momenti di gloria sia per la versione ensemble di The Last Waltz sia per la versione della Band in Music from Big Pink (lo stesso De Gregori l’aveva già interpretata, live, nell’album Mix del 2003). E naturalmente va sottolineato che è inclusa nei leggendari Basement Tapes, da cui origina. Canzone metaforica per eccellenza, ha il pregio della brevità e dell’allusività. La versione di De Gregori rende adeguatamente il tema, anche se forse lo rende sin troppo evidente.


Mondo politico (Political World da Oh Mercy, 1989), una delle canzoni minori da uno degli album maggiori, se così si può dire. La versione di De Gregori è ben fatta e ben cantata e il risultato è stato che, per quanto mi riguarda, ha riacceso i riflettori su una canzone che tendo sempre a sottovalutare. L’adattamento presenta naturalmente le sue libertà, ma nel complesso mi pare renda bene il senso della canzone. Mi è dispiaciuto “perdere” una delle definizioni più sferzanti, però. Quando Dylan canta “in the cities of lonesome fear”, De Gregori lo sostituisce con “le città in cui ci tocca stare”, perdendo, mi pare, l’amara concisione del verso di Dylan che in poche parole descrive la situazione di solitudine e paura della vita cittadina.


Non è buio ancora (Not Dark Yet da Times Out of Mind, 1997): una delle più grandi canzoni di Dylan, eppure una canzone con le sue piccole imperfezioni che però la rendono ancora più vera e umana. È uno dei vertici, se non il vertice, qualitativo anche del disco di De Gregori. La sua versione è ottima, del resto la canzone ben si adattava sia alle sue qualità vocali sia al suo stile. Alcuni punti dell’adattamento mi hanno convinto poco: ad esempio, “Behind every beautiful thing there’s been some kind of pain” è uno dei versi migliori e più ricchi di significato (può riferirsi all’arte se visto in via soggettiva da parte dell’autore della canzone, ma può anche riferirsi un po’ a tutto, anche per esempio agli oggetti che compriamo, che spesso sono stati realizzati da lavoratori sfruttati e sottopagati), ma De Gregori ne riduce in qualche modo l’ampiezza, traducendo: “In ogni bella frase c’è un senso del dolore”. Altre volte c’è una curiosa inversione di significato. Per esempio, uno dei versi forse più “piacioni” della canzone di Dylan (uno di quelli che sembrano scritti perché tutti, più o meno giustamente, ci si possano immedesimare) è: “Sometimes my burden  seems more than I can bear”, mentre De Gregori trasforma questo peso insopportabile in qualcosa di positivo (“E il peso che mi porto appresso è l’unica ricchezza che ho”), anche se si tratta probabilmente di una positività espressa con una certa ironia. Oppure, al culmine del verso migliore della canzone, Dylan, sopraffatto dal pessimismo, dice di non sentire nemmeno il mormorio di una preghiera, tracciando con ciò l’immagine di un mondo che ha perso persino la speranza. Mentre De Gregori la speranza la tiene, traducendo: “E credo di sentire una preghiera e mi potrei sbagliare e oppure non lo so”. Altrove le cose sono più in linea con l’originale. Uno dei punti più beffardi - quello della lettera - De Gregori l’ha tradotto cogliendone perfettamente il sarcasmo e l’amarezza. E lo stesso vale anche per l’altro punto fulminante di ascendenza talmudica (“I was born here and I’ll die here against my will”) che De Gregori riesce a mantenere in modo mirabile (“Sono nato senza chiederlo, senza volerlo morirò”). Nell’insieme, al di là di qualche comprensibile infedeltà (ribadisco, tradurre e adattare Dylan è di una difficoltà enorme e bisogna lasciare a chi si carica di questo compito la libertà di, appunto, prendersi delle libertà), un’ottima versione.


Acido seminterrato (Subterranean Homesick Blues da Bringing It All Back Home, 1965) è simpatica proprio perché improbabile. De Gregori si cimenta in qualcosa che è assai lontano da quello che è nelle sue corde, riprendendo questo sfrenato e fulminante rap ante litteram e rendendolo in una versione tutto sommato accettabile, se non memorabile. Le libertà dal testo originale sono moltissime, ma credo fosse inevitabile, dato il tipo di canzone. 


Una serie di sogni (Series of Dreams da The Bootleg Series 1-3, 1991, ma proveniente, come outtake, da Oh Mercy, 1989): perfetta, poco da aggiungere. Adattissima alla vocalità di De Gregori e adattata in modo magnifico. Una canzone semplice e misteriosa, piuttosto fuori dagli schemi dylaniani, ma molto bella.


Tweedle Dum & Tweedle Dee (Tweedle Dee & Tweedle Dum da “Love and Theft”, 2001), filastrocca pungente e simpatica, con ascendenze da Lewis Carroll, abbastanza ermetica e dylaniana da sembrare forse più arguta di quanto non lo sia. De Gregori dimostra notevole eccentricità nello sceglierla: l’esecuzione non passa alla storia, ma è valida.


Dignità (Dignity da Greatest Hits vol. 3, 1994): altro highlight dell’album, una canzone che si adatta molto bene alle possibilità di De Gregori che la interpreta con animo pungente e partecipata ironia, rendendo ottimamente lo spirito della canzone.


Ho letto in un’intervista le spiegazioni che De Gregori ha dato riguardo al mantenimento degli arrangiamenti dylaniani e alla rinuncia a suonare l’armonica: i motivi sono certamente validi. Personalmente, però, non mi sarebbe dispiaciuta una maggiore innovazione musicale. In conclusione, comunque, un disco valido e interessante, senz’altro da ascoltare.

martedì 8 marzo 2016

Il cinema dell'eccesso vol. 1 - Recensione di Mario Caderale su Segnocinema

Con piacere segnalo la recensione che Mario Calderale ha dedicato al mio Il cinema dell'eccesso vol. 1 (Crac Edizioni) sul numero 198 di Segnocinema (marzo-aprile 2016) attualmente in libreria. Qui sopra una scansione della recensione.




Con l'occasione, è il caso di rimarcare come la rivista in sé sia imperdibile per ogni appassionato di cinema e di segnalare che lo speciale di questo numero, a cura di Flavio De Bernardinis, è dedicato a David Lynch (Lynchidente - Il cinema interrotto di David Lynch) ed è particolarmente interessante.