mercoledì 19 febbraio 2014

Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo

Dopo Red Krokodil, Domiziano Cristopharo prosegue il suo particolare percorso nella psiche disturbata degli esseri umani, con la dedizione dell’entomologo che disseziona l’oggetto dei suoi studi per farne emergere gli umori più acri. Doll Syndrome, scritto da Andrea Cavaletto con cui Cristopharo ha stretto un proficuo sodalizio, è la seconda parte di una trilogia iniziata appunto con Red Krokodil.

Un uomo che vive solo, alienato e quasi robotico (con gli occhi sbarrati come quelli, appunto, di una bambola) nel suo rifiuto della socialità, rimane colpito dalla visione di una ragazza che fa colazione in un bar all’aperto. Lontano com’è dall’idea di tentare rapporti umani, benché faccia in modo di vederla più volte, non prova nemmeno un approccio alla ragazza e preferisce passare direttamente a un succedaneo: una bambola gonfiabile su cui proietta la sua ossessione. Però continua a spiare la ragazza e quando la vede in compagnia del fidanzato ne resta turbato. Come il problematico protagonista di Indecent Desires (1968) di Doris Wishman (la Godard in drag, secondo la definizione di John Waters), il protagonista vuole possedere ciò che non potrebbe assolutamente avere, ma diversamente da quello non vive la comparsa del fidanzato della donna come una sorta di tradimento, ma piuttosto come un’opportunità.


Incapace di esprimere emozioni e sentimenti, il protagonista, in una scena curiosa ma significativa, modella il suo volto con le dita per esprimere un sorriso. Come uno zombie, ogni mattina esce di casa vestito bene per andare al lavoro in un’apparente normalità che cela invece la più totale anormalità, intesa come comportamento antitetico a quello della maggioranza. Il fatto che abbia una lavanderia e lavori quindi nel luogo deputato alla pulizia fa da ironico contrasto con la sporca desolazione della sua vita. Uno dei suoi comportamenti frequenti è anche quello di vomitare, talvolta anche nei cassonetti dei rifiuti (non sono in grado di stabilire se lo faccia, correttamente, nel cassonetto dell’umido o se confermi il suo comportamento antisociale facendolo in quello della raccolta indifferenziata).


Il ritratto dell’alienazione è totalizzante: l’impossibilità di stabilire un contatto col mondo rinchiude sempre più il protagonista in un abisso di masochismo nel quale le autopunizioni fanno da valvola di sfogo sempre più estrema a un desiderio inespresso e inesprimibile. Privato di qualsiasi traccia di umanità, vaga all’interno della sua vita guidato da istinti primari larvatamente autodistruttivi, cercando di tenersi in vita con le sensazioni dolorose che ricerca con determinazione. L’unica volta che lo vediamo entusiasta è quando, in una delle poche immagini surreali di un film altrimenti assai realistico (dal punto di vista figurativo), si taglia il ventre (o immagina di farlo) in modo da creare una sorta di larga bocca dentata.


Più passano i film e meno il cinema di Cristopharo è interessato a “piacere” al pubblico. Le storie si fanno più dure e al tempo stesso più rarefatte e, a modo loro, austere. Come in Red Krokodil, anche qui il ritmo narrativo svicola da ogni convenzione e appartiene a una specie a sé stante, dove la lentezza asseconda la scelta di raccontare senza parole. Proprio questa assenza di parole è particolarmente efficace nel sottolineare la condizione psicologica del protagonista, incapace di comunicare o, meglio, non interessato a farlo. Stilisticamente, il film è ineccepibile. La scelta di raccontare tutto con le immagini - e soprattutto il successo di questa scelta - testimonia una maturità artistica innegabile, oltre a una padronanza dei mezzi espressivi.


Il film non è per tutti, non solo per la tematica, ma anche per la scelta di costellarlo di immagini insolitamente crude (e anche porno): è il lato provocatorio e anticensorio di Cristopharo, stavolta spinto anche oltre i precedenti confini tracciati. La visione è quindi una sorta di tour de force per lo spettatore impressionabile o facilmente turbato dall’esposizione a un immaginario sessuale per nulla gradevole agli occhi. In questo senso, benché si spinga all’estremo, il cinema di Cristopharo non è, attualmente, di exploitation, ma ne rappresenta l’antitesi. Costituisce una sfida a guardare, a reggere lo sguardo della visione.


Va quindi precisato che il pubblico di riferimento è necessariamente ristretto: lo spettatore medio è allontanato dalla scelta di mostrare cruda violenza e (anti)erotismo hard. Quindi, le persone impressionabili o suscettibili di esserlo faranno bene ad astenersi dalla visione, strettamente riservata a persone adulte, mature, pronte a tutto, non facili a offendersi per questioni morali, aperte a ogni visione (anche e soprattutto quelle sgradevoli) e motivate. Sono necessarie queste scene? Naturalmente, in senso stretto, no: la storia filerebbe lo stesso anche senza e i concetti sarebbero comunque espressi con forza pur se il tasso di efferatezza fosse minore. Ma si tratta di una scelta espressiva e come tale lasciata alla discrezionalità e alla responsabilità dell’artista che la compie. A livello critico si può solo prenderne atto e giudicarne l’efficacia. Una scelta espressiva, comunque, volta a scioccare il pubblico e, come detto, ad allontanarne la gran parte (ma in ogni caso, vista la tematica, il film non è destinato al grande pubblico). La provocazione è spesso parte dell’espressione artistica e Cristopharo ne fa consapevolmente uso da tempo.


Nonostante veda film horror da un bel po’ di anni, personalmente non sono un patito degli eccessi sanguinolenti e non mi piace guardarli, ma posso capire il punto di vista del regista (che di certo non ha voluto fare un film “piacevole”): se da un punto di vista contenutistico si vuole affrontare lo scivoloso argomento della sensualità sadomaso, può essere ritenuto necessario affrontare di petto anche la questione della rappresentazione visiva del dolore. Cristopharo lo fa senza fermarsi davanti a nulla: electa una via, non datur recursus ad alteram, dicevano i romani relativamente ad altre faccende, ma il brocardo può andare bene anche qui. Scelta la strada del “mostrare” per far meglio capire, tutto viene mostrato. E la sensazione è che ciò che viene mostrato non venga mostrato per evidenziarne il carattere “malato”, ma per mostrare come anche questa estrema disumanità è fin troppo umana, pur se magari può spaventare che lo sia.


Nei film degli anni ’30 nei titoli di coda scrivevano “a good cast is worth repeating”, qui mi sento dire che l’avvertimento è meritevole d’essere ripetuto: guardate il film solo se  siete certi di poter affrontare l’esposizione esplicita della sua tematica.


Cinema della crudeltà, verso se stessi e gli altri. Cinema estremo, cattivo, che nella sua ultima parte rasenta l’insostenibilità in un parossismo di torture che nella sua insana ferocia richiama più certi horror giapponesi di qualche decennio fa (quelli di Kazuo Komizu, per esempio, anche se molto diversi nel tono) che i più recenti torture porn americani dedicati al grande pubblico. Ma per il suo sguardo apparentemente neutro e spersonalizzante, il film si distanzia molto da questi modelli di cinema estremo. Gli effetti speciali sono molto realistici, nella maggior parte dei casi, e il loro minimalismo li rende ancora più efficaci. Da notare che, mentre il contesto e la rappresentazione sono realistici, il protagonista chiaramente non lo è - né nel comportamento, né nell’atteggiamento - creando così un contrasto curioso, figurativamente interessante anche se, forse, narrativamente spiazzante.


La storia procede con studiata lentezza, non per consentire un approfondimento psicologico (che non c’è: i personaggi restano a una dimensione, protagonista compreso che non ha una progressione caratteriale, ma semmai una specificazione), ma per far emergere un po’ alla volta la vuota iterazione della vita del protagonista e dare un senso logico al suo sfociare in una svolta “sociale” di perversa condivisione, più che di sopraffazione. Il rimedio alla solitudine non è conformarsi agli altri, ma conformare gli altri a se stessi. Il punto più delicato e significante è proprio quello in cui la fusione di dolore e piacere dovrebbe realizzarsi compiutamente con la (forzata?) condivisione da parte della “vittima” del sistema di (dis)valori del protagonista.


Il concetto base sembra essere il fascino che può essere indotto dallo stretto legame tra dolore e piacere. Sotto questo aspetto il sottofinale anche senza parole speak volumes, come dicono gli inglesi. Invece di adattarsi al mondo e alla socialità, il protagonista cerca di formare un microcosmo di alienazione governato da regole autonome alla ricerca di una condivisione del proprio mondo. In questo modo, il nichilismo della storia si colora di sarcasmo proponendo la parodia di una situazione “normale”.


Efficace, ma soprattutto quasi eroico il protagonista Tiziano Cella, per la sua disponibilità nell’interpretare un personaggio assolutamente non facile per quanto è richiesto che faccia. Azzeccata la colonna sonora firmata da Il Cristo Fluorescente e Jarman, che asseconda bene l’atmosfera trasognata e desolata del film.


Qui sopra Aurora Kostova, tra i protagonisti del film.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Nel film "a proposito di davis si intravede l'esordio in pubblico di Dylan. Ma è veritiero o no, ce lo sai dire?

Rudy Salvagnini ha detto...

Non ho ancora visto "A proposito di Davis", comunque credo che la cosa sia da intendere in termini metaforici più che strettamente storici (così come Llewyn Davis non è Dave Van Ronk, ma trae solo spunto dalla sua figura: Van Ronk non era un velleitario fallito, ma un folksinger con una discreta carriera, benché non sia mai stato di successo. Tra l'altro ricordo d'averlo visto in concerto a Udine nel 1982 o giù di lì ed era molto sereno nel raccontare il suo rapporto con Dylan). Un procedimento analogo era già stato usato ds Philip Kaufman nel suo dimenticato - ma interessante - The Wanderers, dove la figura di Dylan viene intravista nel finale mentre canta in un locale, a segnalare il vento del cambiamento che lui rappresentava e che avrebbe spazzato via tutto quello che i protagonisti del film credevano contasse. Allo stesso modo, penso (ma, ripeto, devo ancora vedere il film), Dylan compare alla fine di "Davis" per segnalare come l'autentica grandezza si staglia incontestabile e pone fine a illusioni e recriminazioni ponendosi come un paradigma.