mercoledì 19 febbraio 2014

Bob Dylan e la Chrysler

Bob Dylan ha fatto da testimonial per la Chrysler (una fabbrica d’auto, per chi non lo sapesse) in uno spot mandato in onda per la prima volta negli USA durante il Super Bowl e quindi con la massima audience possibile. La cosa, naturalmente, ha suscitato grande interesse e notevoli polemiche da parte di chi pretende di misurare la moralità altrui senza in genere considerare la propria.
In sostanza, l’accusa prevalente è di essersi venduto, come se un artista non si vendesse ogni volta che una sua opera viene offerta al pubblico per l’acquisto. A parte le boutades, è chiaro che in questo caso lo “scandalo” è stato quello della commercializzazione della propria immagine da parte di un mito dell’integrità morale, politica e sociale come Bob Dylan è ritenuto essere da qualcuno. Quanto sia vetero-integralista una posizione del genere e quanto poco ci sia di svendita morale nel fare un po’ di pubblicità lo lascio alla sensibilità personale di ciascuno. Mi sembra piuttosto interessante valutare lo spot per quel che è e vedere che cosa può aver stimolato Dylan a parteciparvi (a parte il cachet, quello sì leggendario a quanto pare).


Lo spot riesce a essere al tempo stesso imbarazzante a tratti (anche per i ritocchi  all’immagine di Bob Dylan che, per quanto lo riguarda, non ha paura di mostrarsi vecchio, ma è stato evidentemente ringiovanito per motivi - presumo - di marketing) e geniale in altri punti per come è spiazzante e, a suo modo, originale. Ma soprattutto rimette al centro dell’attenzione il lavoro, una delle tematiche che ha percorso l’opera di Bob Dylan, anche se magari in modo discontinuo e talvolta  sotterraneo. In particolare, il lavoro manuale, operaio, quello di cui già Woody Guthrie si era fatto paladino rapportandolo all’operato di coloro che ti derubano con la penna stilografica (d’accordo, si parlava di Pretty Boy Floyd, ma il concetto è quello).


Workingman’s Blues #2 (dall’album Modern Times, 2006) è significativa: “Some people never worked a day in their life/Don’t know what work even means”. E si capisce bene chi Dylan sta stigmatizzando: quelli che hanno i soldi e non hanno mai avuto bisogno di lavorare, in confronto a quelli che invece si guadagnano la vita con il lavoro. Nella crisi di oggi il lavoro è quello che è stato più duramente colpito e rimetterlo, con la sua dignità, al centro dell’attenzione è importante. La delocalizzazione non è altro che un sistema inventato dal capitalismo per svilire i lavoratori e riportare indietro l’orologio del tempo. A questo proposito, in molti nel difendere la scelta di Bob Dylan hanno richiamato la sua canzone Union Sundown del 1983 (dall’album Infidels) nella quale veniva evidenziato come la manifattura fosse stata spostata all’estero in modo da sottopagare (e quindi sfruttare) i lavoratori di quei luoghi, creando disoccupazione in America. In quella canzone, Bob Dylan indica la ragione di tutto ciò: l’avidità.


Ma Bob Dylan si era già occupato della cosa nel 1964 con North Country Blues (dall’album The Times They Are A-Changin’), quando nessuno se ne occupava, descrivendo una realtà che conosceva bene avendo visto da vicino il declino e la rovina - con la conseguente disoccupazione - della sua terra, il Minnesota, dopo la chiusura delle attività estrattive e industriali perché non convenivano più: “They complained in the East/They are paying too high/They say that your ore ain’t worth digging/That it’s much chepaer down/In the South American towns/Where the miners work almost for nothing”. Queste sono i versi del 1964. Questi invece sono quelli del 2006 di Workingman’s Blues #2: “They say low wages are a reality/If we want to compete abroad”. Gli anni sono passati, ma la situazione è solo peggiorata e a farne le spese sono sempre i lavoratori, mentre gli stipendi degli  executives sono schizzati a razzo sino su Marte.


Soprattutto in Europa, si è fatto però presente che l’impostazione “americana” dello spot è fasulla perché la Chrysler è della Fiat. Questo significa, a mio avviso, non aver colto il problema. Il problema non è sapere di chi sia la fabbrica, ma che la fabbrica esista e ci lavorino le persone del posto. Questo, credo, interessa ai lavoratori, non altro che la dignità del loro lavoro. Allo stesso modo in cui ai lavoratori italiani - magari quelli della Fiat - penso non interessi tanto chi sia a capo della società quanto che gli stabilimenti rimangano in Italia. E lo stesso, va da sé, interessa ai lavoratori delle altre nazioni: avere il lavoro e averlo dignitoso, non da sfruttati, senza corse al ribasso con i lavoratori di altre nazioni con la minaccia o il ricatto della delocalizzazione. Che un’azienda sia di proprietà italiana o americana e,
per massimizzare i profitti, abbia le fabbriche su Venere dove i lavoratori lavorano gratis, credo possa interessare agli azionisti e ai loro dividendi: ai lavoratori italiani o americani interessa che la fabbrica sia dove si trovano loro e fornisca lavoro a condizioni eque.
So much for critics.

 
In ogni caso, era solo uno spot.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Avendo avuto l'occasione di vedere il giapponese "Zombie ass", mi chiedevo se si fosse finalmente raggiunto il fondo nella saga degli zombi o se sia possibile continuare a scavare.

Rudy Salvagnini ha detto...

Zombie Ass ancora non l'ho visto (ma un film che ha come sottotitolo Toilet of the Dead dovrebbe presentare almeno qualche caratteristica di imprescindibilità), però sul fatto che, arrivati su quello che si pensa essere il fondo si scopra che invece c'è sempre qualcuno che arriva più in basso, non ci piove.