domenica 2 febbraio 2014

Bloody Sin di Domiziano Cristopharo

Bloody Sin è il terzo lungometraggio di Domiziano Cristopharo: si dovrebbe quindi situare dopo Museum of Wonders e prima di Red Krokodil. E' un horror a tutto tondo, anche se naturalmente molto particolare.

Olevano, Italia, 1474. L’eretico monsignor Fohrer è torturato dall’inquisizione, ma avverte: molto sangue scorrerà, oltre naturalmente al suo. New York, 1974. Miss Steele (Maria Rosaria Omaggio), direttrice della rivista erotica «Bizarre», incarica il fotografo Johnny Morghen (Lorenzo Balducci) di fare un servizio in Italia e, nell’occasione, di trovare qualcosa di nuovo per controbattere le pulsioni femministe che si stanno affermando contro la donna-oggetto (che è la ragione stessa di esistenza della rivista). L’idea è quella di creare uno scandalo, magari anche attraverso immagini di tortura e sadomaso. Assieme a Johnny, viaggiano la redattrice Helen Driscoll (Nancy De Lucia), la fotomodella Barbara (Roberta Gemma) e la truccatrice Rita de Palma (Clio Evans): la meta è proprio il cupo castello di Olevano. Li scorta lì Lenzi (Daniel Baldock), che si occupa della logistica per il servizio. Il proprietario del castello, Terence Fischer (Dallas Walker), ha dei problemi con l’anziana madre che non vorrebbe estranei, ma le cose in qualche modo si risolvono. Fischer, però, si intrattiene con Helen chiamandola Lisa, come se la aspettasse da tempo, creando un certo imbarazzo nella giovane. Fischer ha un passato da attore cinematografico, ma ha abbandonato la carriera per dedicarsi al collezionismo d’arte. Qualcosa però incombe sul castello e giungono i primi delitti: pare che proprio lì, nell’antico maniero, vi sia una delle porte dell’inferno.


Il film è un chiaro omaggio all’horror italiano degli anni ’60, in particolare a Il boia scarlatto, del quale riprende diversi elementi, al punto da risultarne quasi una rivisitazione allucinata. Rispetto ai film precedenti di Cristopharo e ancor più rispetto a quelli successivi, si nota in questo il desiderio di mantenersi, almeno in superficie, all’interno dei dettami e dei parametri del genere, con una trama lineare e tipica. Proprio la trama, però, col passare del tempo si contorce e si avviluppa prendendo direzioni curiose e deliranti che la distanziano dai prototipi di riferimento. Rispetto a quegli horror d’epoca, inoltre, questo è sicuramente più estetizzante, alla ricerca dei dettagli formali invece che del ritmo narrativo, che resta lento e lontano dalla rapidità tipica dei B-movies. Questa lentezza, mantenendosi il film in gran parte sul piano del racconto tradizionale, solo a tratti ha la trasognata qualità che l’avrebbe del tutto riscattata finalizzandola, per esempio, alla costruzione di un’atmosfera. L’atmosfera c’è, ma talvolta a scapito della narrazione e non sempre in suo supporto.


Simpatico l’utilizzo di stacchi disegnati per un veloce cambio di situazioni e ambienti, passando come in un volgere di pagine attraverso aspetti su cui si intende sorvolare pur accennandoli, come se si stesse sfogliando un fumetto o magari un fotoromanzo. I raffinati passaggi di scena con morbide transizioni aiutate dallo split-screen (anche questo in sé un richiamo al cinema di quegli anni, anche se non in particolare quello italiano) e improvvise irruzioni di elementi visuali incongrui ma singolarmente riusciti, come una stop motion dai toni grotteschi, conferiscono al film una strana eleganza e un buon fascino. La madre di Fischer è una presenza grottesca e inquietante, molto azzeccata sotto il profilo scenico, con una decrepitezza chiaramente artificiale, ma figurativamente riuscita proprio per i suoi eccessi.


Ci sono momenti in cui l’inquieta estetica di Cristopharo emerge con forza, come nell’accoppiamento onirico di Fischer. Il gioco di trasfigurazioni e rimandi nella scena chiave dell’amore - tra il necrofilo e il febbrile - tra Fischer ed Helen (con richiami che sembrano evidenti, in questo caso, a Lisa e il diavolo di Bava) è ben gestito e la successiva scena laido-incestuosa trasporta il regista nel suo terreno preferito, più perverso e originale, delirante. Anche nei flashback romanzati - quello su Barbablù, di cui si ripropone il tabù della porta sprangata e proibita, e quello sui nazisti e dei loro esperimenti proibiti - Cristopharo conferma le sue qualità visuali di narratore capace di estrarre l’essenza dalle cose e di ritrasmetterla con raffinatezza e inventiva, con suggestivi richiami al cinema muto.


Nell’ultimo terzo  il film si affranca dalle fonti, si precisa nel suo percorso narrativo autonomo (un po’ confuso, per la verità) e aggiorna, con la contaminazione nazista, la sua rivisitazione dei prototipi. Alcune svolte, inspiegate e inspiegabili, come quella robotica, hanno probabilmente una logica interna che ai più sfugge, ma dal punto di vista della sorpresa e dello spiazzamento narrativo funzionano. Rispetto ai film successivi - più crudi e duri - ci sono diversi tocchi di exploitation nelle immagini, rivolte anche ad assecondare il lato voyeuristico del pubblico (e non c’è niente di male in questo). Nell’insieme, un film che conferma le qualità di Cristopharo, ma che sembra un po’ di transizione, con qualche incertezza.


I nomi sono talvolta citazioni e il film si spinge al punto da parlarne espressamente: al “castellano” viene infatti fatto notare che il suo nome è quello di un famoso regista inglese di horror . Lui, naturalmente, lo sa, ma puntualizza di essere tedesco (e per questo, si capisce dai sottotitoli, la grafia del cognome è diversa).


In un cast mediamente accettabile, spiccano Nancy De Lucia - bella e brava in un ruolo non facile - e Dallas Walker, che conferisce un’aura quasi aliena al suo personaggio, come un Mickey Hargitay venuto dalla Luna. I cinefili possono apprezzare i cameo di Ruggero Deodato e Venantino Venantini, che si rivede con piacere nel breve ruolo di Monsignor Carella. Più ampia è la partecipazione di una sempre brava Maria Rosaria Omaggio.
Giovanna canta l’accattivante canzone del film.

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