sabato 10 marzo 2012

P.O.E. Poetry of Eerie


Edgar Allan Poe ha goduto delle attenzioni del cinema soprattutto negli anni ’60, quando Corman costruì un intero ciclo di pellicole sui suoi racconti, ma anche in altri periodi non sono mancati film ispirati alle sue opere, dai tempi de La caduta della casa Usher (1928) di Jean Epstein ai giorni nostri, con esempi come l’ineffabile Ligeia (2009) di Michael Staininger. Questa presenza massiccia, nonostante le difficoltà insite nella trasposizione cinematografica dei racconti tutt’altro che cinematografici di Poe, è un segno evidente del fascino che lo scrittore ha sempre esercitato.

Normalmente, dato che i racconti di Poe sono brevi e spesso più interiori che esteriori nella narrazione, il metodo per trarne dei film è quello di rimpolparli al punto che della materia originale rimane ben poco. Per ovviare a questo problema si è talvolta puntato su film a episodi invece che su lungometraggi tratti da un singolo racconto. Lo ha fatto Corman con I racconti del terrore e lo hanno fatto, tra gli altri, Dario Argento e George A. Romero con Due occhi diabolici. Ma anche quando si è scelta questa via, il materiale aggiunto si è spesso rivelato preponderante. Nel caso di questo nuovo film indipendente, P.O.E. Poetry of Eerie (2011), diretto da un gruppo di promettenti e giovani autori, la scelta è stata quella, ancora più radicale, di episodi molto brevi. Questa brevità avrebbe potuto consentire - se ciò effettivamente fosse possibile e, soprattutto, fosse stato l’obiettivo degli autori - di restare piuttosto fedeli a Poe. Ma invece, in prevalenza, si è preferito prendere spunto dai racconti per trattare d’altro. Dopo anni e anni di Poe al cinema non si può dire che la scelta sia astrattamente sbagliata. Il problema è che ciò può talvolta tradursi in una banalizzazione del materiale e nella difficoltà nel trovare il senso dell’operazione, di trovare cioè Poe all’interno delle nuove storie raccontate.

In questo e anche in altro, ogni episodio fa comunque storia a sé. Il complesso è quello che gli americani definiscono una mixed bag, con momenti riusciti che si alternano ad altri meno riusciti: il destino praticamente inevitabile dei film a episodi, soprattutto quando sono di autori diversi.

Il primo episodio è Silence, di Angelo e Giuseppe Capasso. Un uomo si sveglia ansimante, al suo fianco una donna sdraiata di lato che sembra dormire. Va in bagno, lo specchio ha un sussulto. Prende un caffè, gli casca la tazzina e si rompe. Chiama Annabel, come se pensasse fosse lei o il suo fantasma all’origine del suo turbamento. In bagno c’è del sangue nella vasca, assieme a frammenti di vetro. Ombre che passano, musica sinistra e avvolgente, camera sul personaggio, tensione sui dettagli: l’episodio è un classico esercizio di stile sulla paranoia e sull’ossessione, ben condotto, forse un po’ troppo debitore del cinema spettrale giapponese. Non c’è molta trama e nemmeno molto di nuovo, ma si lascia vedere con interesse. Stilisticamente promettente.

Il secondo episodio è The Sphinx di Alessandro Giordani. In uno squallido appartamento all’interno di un bunker in disfacimento, un uomo di una certa età studia degli insetti. Sua figlia cerca invano di lavarsi: non c’è acqua. Fuori invece c’è il mare. Ma anche una misteriosa pestilenza. La ragazza va fuori a prendere l’acqua anche se il padre gliel’aveva proibito per la possibile contaminazione. La ragazza nega che esista l’epidemia, vuole costringere il padre a bere l’acqua. Uno dei più curiosi e meno noti tra i racconti di Poe, che magnifica l’attenzione per il dettaglio che fa perdere di vista la realtà d’insieme (ne feci addirittura una versione a fumetti una quarantina di anni fa). Il contrasto tra le immagini cupe e claustrofobiche del bunker e quelle sognanti della spiaggia, di una luminosità soffusa, si accompagna a una musica dissonante e a dialoghi declamati fuori campo. L’effetto è interessante, straniante, ma non conduce a molto.

Il terzo episodio è Glasses di Matteo Corazza. Ginevra, una giornalista amante della mondanità, va con secondi fini a una festa invitata da un ex, Ruggero, che ha mollato. La ragazza è molto miope e alla festa gli occhiali le cadono e non li trova più. Ruggero si offre di cercarli e nel frattempo le presenta il fratello Riccardo di cui lei vede solo confusamente i lineamenti. Ne rimane comunque affascinata. Peggio per lei. Il racconto di Poe era in sostanza un’elaborata gag. Qui lo spunto degli occhiali è solo un pretesto all’interno di un quadro vendicativo di maniera che non presenta sorprese e si conclude in modo telefonato.

Il quarto episodio è Valdemar di Edo Tagliavini. Un medico, grazie all’aiuto di un esperto, mesmerizza Valdemar, un uomo affetto da tisi, quando sta per morire. L’esperimento riesce, ma il mesmerizzatore muore accidentalmente. Trovarne un altro si rivela impossibile, quindi il medico si trova in difficoltà, con Valdemar intrappolato tra la vita e la morte. Uno dei racconti di Poe più amati dal cinema - due le versioni di rilievo (Corman e Romero) - è stravolto a fini umoristici con esiti che si fanno apprezzare anche se talvolta più per lo spirito che per la pratica.

Il quinto episodio è The Tell-Tale Heart di Manuela Sica. Una donna visita una casa, mentre una voce legge la vicenda. Poi la donna stessa legge. Il racconto di Poe rimane nelle parole. Le immagini sembrano raccontare qualcos’altro. Ma non saprei dire cosa. Il collegamento più che negli occhi di chi guarda è in quelli di chi ha realizzato il film.

Il sesto episodio è Gordon Pym di Giovanni Pianigiani e Bruno Di Marcello. Gordon Pym, un marinaio, è imprigionato sotto coperta e costretto a mangiare scarafaggi per l’assenza di cibo. Un vecchio che lo chiama “padrone” cerca di ucciderlo, ma il marinaio, benché rimasto ferito, riesce a ucciderlo prima lui. Poi si nasconde ed è testimone di un pranzo cannibalesco. Ma i cannibali si accorgono di lui. L’unico romanzo di Poe diventa spunto per un raccontino claustrofobico con piccolo colpo di scena finale che vede la partecipazione di un giovane Poe alle prese con la sua creatura. La realizzazione privilegia le immagini alle parole - compendiando alcuni elementi del romanzo - ma non trova un colpo d’ala che renda quelle immagini capaci di vivere significativamente di luce propria.

Il settimo è The Black Cat di Paolo Gaudio. Forse il racconto di Poe più popolare al cinema, con svariate versioni molto significative, da Ulmer a Corman, a Dario Argento. Questa, realizzata in animazione, è simpatica, piuttosto burtoniana, ma con qualità sufficienti a garantirle un autonomo valore. Mettere Poe nel ruolo del protagonista di un suo racconto non è una novità, ma è decisamente appropriato. L’essenza del racconto è colta con bravura.

L’ottavo episodio è Ligeia di Simone Barbetti. Il ménage di una coppia è turbato dal ricordo di Ligeia, precedente e defunta moglie dell’uomo. Si turba ancora di più quando il ricordo si materializza in una figura fantasmatica. Corman aveva fatto di questo racconto un turgido e ambiguo melodramma gotico. Qui si resta alla sostanza dell’incubo per catturarne gli elementi più caratteristici, ma la passione per Ligeia resta un po’ troppo sulla carta, data per presupposta. Un tentativo comunque non banale, condotto con convinzione.

Il nono episodio è The Raven di Rosso Fiorentino. La poesia di Poe, è stata alla base - se così si può dire - di I maghi del terrore di Corman. Qui la lettura della poesia è illustrata, in modo alternativamente ossequioso e inquieto se non inquietante, da sequenze che restano sulla superficie della meditazione sulla morte.

Il decimo episodio è The Man of the Crowd di Paolo Fazzini. Un uomo osserva la folla e segue uno sconosciuto che ha attirato il suo interesse. L’attualizzazione all’odierno contesto urbano non è forzata, sembra quasi naturale, per la valenza extratemporale della tematica. La misteriosità della notte cittadina e l’inestricabile viluppo dei destini umani e della casualità che spesso li regola sono rese in modo sommario, ma efficace. Il finale tenta una sorpresa non del tutto conseguente: l’insieme è comunque inquieto e interessante.

L’undicesimo episodio è Berenice di Giuliano Giacomelli. Un uomo è affranto per la morte dell’amata moglie e la veglia. Ma lei, forse, non è morta. Tentativo di recuperare le atmosfere del gotico italiano dei tempi che furono, con un uso del colore e delle ambientazioni che si richiamano in parte a quella stagione, crea una discreta aura macabra seguendo l’esteriorità del racconto di Poe senza avere il tempo e forse la forza di catturare la sua ossessione.

Il dodicesimo episodio è Maelzel’s Chess Automaton di Domiziano Cristopharo ed è il migliore del lotto. Una partita a scacchi con un automa potrebbe essere l’occasione per rivalutare un’esistenza e Mr. Gray non vuole perderla. L’estetica dell’automa giocatore di scacchi è un elemento vincente che, con la sua aria rétro, si adatta molto bene - per contrasto - all’ambientazione luminosa e moderna. La partita a scacchi (e più in generale il gioco) vista come metafora della vita (e della morte) ha sempre il suo fascino e la sua validità, ma è il modo in cui è condotto il racconto a essere vincente. L’allucinata visione del predominio delle macchine sull’uomo è resa in modo elegante e visivamente raffinato ed efficace. L’assoluta (e vana, oltre che vacua) astrazione rappresentata dal gioco si evidenzia come il fine ultimo per un’umanità incapace di uscire dai propri limiti e difetti. Buona anche l’interpretazione di Luca Canonici e Angelo Campus.

Il tredicesimo episodio è Song di Yumiko “Sakura” Itou. In un’ambientazione giapponese, un’esecuzione rituale e uno spartito insanguinato. Direi che va un tantino sul criptico.

La durata complessiva è generosa (oltre un’ora e cinquanta) e l’impresa ambiziosa e nel complesso non priva di meriti, senz’altro da sostenere.

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