mercoledì 12 ottobre 2011

The Museum of Wonders


Dell’esordio di Domiziano Christopharo nel lungometraggio - House of Flesh Mannequins - ho parlato nella nuova edizione del Dizionario dei film horror. Questo secondo film, The Museum of Wonders, conferma le qualità stilistica del regista in un contesto figurativamente più compatto e narrativamente più equilibrato. Il risultato è una affascinante rilettura felliniana di Freaks, senza la devastante potenza eversiva e la carica rivoluzionaria del film di Browning, la cui trama è nei fatti basilari simile, ma con una trasognata riflessività che rende il film comunque originale e interessante, ambientato com’è in una sorta di teatro-circo-cabaret dove vive una moltitudine di personaggi strani e curiosi.

Il nano Marcel (Fabiano Lioi) sta per sposarsi con Olimpia (Adele Tirante), ma ama la bella Salomè (Valentina Mio), che gli spilla soldi approfittando della sua passione e suscitando la gelosia della promessa sposa. Il rude e forzuto Sansone (Francesco Venditti) abbandona bruscamente l’amareggiata compagna per coltivare la relazione con Salomè e approfittare dei generosi lasciti di Marcel. Sansone si chiede però come mai Marcel sia così ricco. Quando scopre che si tratta della pingue eredità della nonna di Marcel, pensa a come impossessarsene assieme a Salomè. Il modo è semplice: Salomè dovrà sposare Marcel, con tutto quel che ne consegue. Ma l’avidità non potrà che portare dolore e sangue.

Un film singolare, sui generis, totalmente svincolato da mode e tendenze attuali e, anche per ciò solo, spavaldo e coraggioso, strano e affascinante. Rievocare un classico maledetto come Freaks è un progetto ambizioso. Cristopharo lo realizza enfatizzando il melodramma e accompagnandosi a celebri arie liriche che incrementano in modo naturale il pathos. Riletture, ispirazioni, citazioni e richiami sono rielaborati in modo autonomo e la cifra stilistica di Cristopharo si precisa ulteriormente acquisendo ancora maggiore personalità rispetto al già notevole House of Flesh Mannequins che, dalla sua, aveva l’efficienza e il fascino dei meccanismi horror oltre a un consistente tasso di erotismo. Costellati di aforismi taglienti e fulminanti che è sempre un piacere sentire - “Certo che la fortuna esiste. Altrimenti come potremmo spiegare il successo degli altri?” (Jean Cocteau); “Se non avessimo difetti, non proveremmo tanto piacere a notare quelli degli altri” (François de La Rochefoucauld) - i dialoghi accompagnano con forbita eloquenza le immagini cercando la profondità e talvolta trovandola. L’uso delle canzoni - con Giovanna, indimenticata protagonista della canzone italiana, in evidenza - è cruciale nell’aumentare lo straniamento teatrale e nel commentare il procedere ineluttabile del dramma. Quello che comunque più si nota è l’incessante ricerca di giochi visuali, ricchi di simbolismi surreali, di una raffinatezza che pone su un piano astratto e senza tempo la riflessione sulla marginalità e sulle differenze, sull’amara non omologabilità dei diversi che costituisce il tema centrale del film. Resta qualche compiacimento di troppo, qualche lungaggine un po’ narcisistica in cui il film si specchia su se stesso e sulla bellezza delle sue immagini tralasciando il ritmo narrativo e prolungando il tempo di proiezione oltre quanto sarebbe utile e oltre quanto un montaggio più serrato e meno compiacente suggerirebbe. In questo, è compartecipe l’impostazione teatrale della rappresentazione, che si svolge sostanzialmente tutta in interni per aprirsi simbolicamente all’esterno solo nel finale. Ma sono difetti di esuberanza che non inficiano la bontà dell’insieme.

Il cast è notevole anche nei ruoli di contorno, con più di qualche illustre cameo (Maria Grazia Cucinotta e Ruggero Deodato in evidenza). Maria Rosaria Omaggio è una presenza di rilievo, mentre Valentina Mio dà cattiveria e fascino al personaggio di Salomè, la cui avidità si direbbe disumana se non fosse in realtà sin troppo umana. Le fanno da contraltare un adeguato Francesco Venditti, in un ruolo ricco di sfumature, tutt’altro che tipizzato e il bravo Fabiano Lioi. Giampiero Ingrassia e il glorioso Venantino Venantini offrono sapienti prove d’attore in ruoli analoghi che fungono da collante alla storia, commentandola, seguendola e presentandola.

Gli spettatori del museo delle meraviglie vengono a vedere le stranezze, le stupefazioni della marginalità, della diversità. Gli spettatori di questo film, in un gioco di rimandi, si trovano nella medesima situazione, ma senza, forse, lo stesso senso di colpa: li aspetta un viaggio nell’insolito che difficilmente li deluderà.

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