domenica 29 agosto 2010

I miei fumetti e Bob Dylan (2)



Riprendo dopo un bel po’ la mini miniserie dedicata ai miei fumetti con citazioni o implicazioni dylaniane. Ne avevo iniziato a parlare in questo post. Stavolta il riferimento è più diretto. Il fumetto si intitola Le radici dell’odio: la storia di Emmett Till, è stato disegnato da mio fratello Gianni ed è stato pubblicato sul Messaggero dei Ragazzi n. 11 del 1993. Qualche annetto fa, quindi.

La vicenda è quella dell’omicidio di un ragazzo di colore avvenuta nel profondo Sud degli Stati Uniti il 28 agosto del 1955. Si tratta di un caso che ha avuto ai tempi una certa risonanza - anche per il suo esito processuale - nell’ambito della lotta per i diritti civili. Bob Dylan ha scritto una canzone sull’argomento, The Death of Emmett Till, nel 1962. L’ha cantata spesso dal vivo nei primi tempi della sua attività - ne esiste un’ottima versione nel programma radiofonico di Cynthia Gooding, Folksinger’s Choice, sempre del 1962 - ma non è mai finita su uno dei suoi album, benché sia stata registrata durante le sessioni per The Freewheelin’ Bob Dylan, il suo secondo album. È uscita solo - se la memoria non mi inganna - nell’album collettivo Broadside Ballads vol. 6: Broadside Reunion al quale Dylan ha partecipato con lo pseudonimo di Blind Boy Grunt. Questo per quanto riguarda le uscite ufficiali.

La canzone è piuttosto semplice, a suo modo efficace soprattutto per l’interpretazione, ma sicuramente non è una delle migliori. Il motivo è quasi banale: diversamente da quanto avrebbe fatto in seguito a questo suo pionieristico sforzo (è una delle prime canzoni che ha scritto, sostanzialmente). Dylan fa largo uso di una facile retorica e non riesce ad andare oltre la narrazione dei fatti, traendone una morale ovvia. Manca quel passaggio dal particolare all’universale che avrebbe caratterizzato i suoi successivi esempi di canzone politica: basta fare un confronto con la ben più riuscita The Lonesome Death of Hattie Carroll, di soli due anni più tardi e anch’essa riguardante un omicidio a sfondo razziale rimasto in pratica impunito, per cogliere facilmente la differenza di profondità e di scopo.

La storia in sé - la vicenda di Emmett Till - mi era sembrata comunque interessante, ottima materia per un racconto morale, a patto di evitare i toni enfatici e di cercare un approccio un po’ ellittico. Evitare cioè l’errore di inesperienza compiuto da Dylan (resta il fatto però che The Death of Emmett Till è una canzone comunque coinvolgente e molto bella all’ascolto), per quanto possibile. Per farlo, ho dato una struttura particolare alla storia inserendola in una cornice attuale, tracciando un parallelo tra il razzismo di allora e quello di adesso (più sottotraccia) ed evidenziando anche come quello che vediamo - in Tv, magari, come avviene nella mia storia - ci porti spesso a un facile coinvolgimento emotivo che ci fa sentire più giusti e più buoni, ma non ha alcuna ricaduta sulla realtà, sui comportamenti che adottiamo nella nostra vita. La storia è di 17 anni fa: oggi le cose si sono evolute in modo ancora più drammatico e disorientante.

Nella mia fulminea esperienza di insegnante in una scuola di fumetto ho usato proprio quella storia per mostrare un modo di intervenire sulla struttura di un soggetto per dargli maggiore forza drammatica, per caratterizzarlo e diversificarlo, aggiungendogli significati.

In effetti comunque un motivo non secondario per scrivere quella sceneggiatura era stato quello di fare un fumetto con dentro Bob Dylan, in qualche modo. Lo spunto mi era venuto da un interessante articolo che rievocava il fatto pubblicato su quell’insostituibile rivista di studi dylaniani che fu The Telegraph, creata e curata dal compianto John Bauldie. Poi mi ero documentato anche altrove e tutto quello che è rievocato nel fumetto dovrebbe rispecchiare i fatti. Anche se a me di solito piace di più lavorare di fantasia (come ha detto una volta ironicamente Jimmy Sangster: “Se una storia richiedeva che mi documentassi, non la scrivevo”), quando è necessario bisogna documentarsi per evitare di scrivere sciocchezze. A meno che - e anche questo capita - non si vogliano davvero scrivere sciocchezze: a volte possono essere molto divertenti.

Qui sopra un paio di pagine (la quinta e l'ottava) di quella storia.

Nessun commento: