giovedì 14 gennaio 2010

Pupi Avati - Sotto le stelle di un film


Pupi Avati è un regista singolare nel panorama del cinema italiano. Unisce artigianato e autorialità in modo ammirevole, coniugando quantità e qualità. Mi è sempre sembrata rimarchevole la puntualità con cui, cascasse il mondo, sforna un film all’anno, o giù di lì - proprio come Woody Allen - facendo con ciò presente che quella di regista non è solo una passione, ma è anche la sua professione, il suo lavoro. La circostanza mi fa venire in mente una annotazione di Stephen Thomas Erlewine - che ho riportato in Il cinema di Bob Dylan - che, riguardo al tentativo di creazione mitologica di Robbie Robertson sui pericoli e sulla maledizione della strada intesa come distanza da percorrere indefessamente tra un concerto e l’altro, ha puntualizzato che fare concerti per un musicista non è sottoporsi a un regime di vita “dannato”, è semplicemente svolgere il suo lavoro. Ecco perché Bob Dylan continua a fare concerti, B.B. King ha fatto oltre cento concerti l’anno per molti anni, Woody Allen fa un film all’anno e lo stesso fa Pupi Avati. Ci sono gli artisti che si siedono (o se la spassano) in attesa dell’ispirazione oppure passano anni a perfezionare meticolosamente la loro opera e ci sono invece quelli che preferiscono lavorare con continuità vedendo periodicamente l’esito del proprio lavoro. Perché la loro creazione artistica è anche il loro lavoro. Sono per questo meno importanti? È il risultato che conta e a volte invece di un’opera perfetta (se esiste la perfezione) può essere preferibile un insieme di opere forse singolarmente meno perfette ma stimolanti, che proprio dal numero, dall’essere un insieme, trae la propria forza. Balzac dovrebbe far venire in mente qualcosa. E nessuno, credo, ha mai rimproverato a Shakespeare d’aver scritto troppi drammi o troppe commedie.

Chi ama l’horror, apprezza sicuramente gli horror di Pupi Avati, che sono del tutto peculiari, ricchi di spunti inquietanti, bizzarri e originali. La casa dalle finestre che ridono e Zeder (il mio preferito) sono i migliori, ma anche L’arcano incantatore e Il nascondiglio hanno elementi di interesse e guizzi di unicità che tradiscono la personalissima cifra avatiana.

Ma Avati non è solo horror, anzi è horror solo in parte minimale. È stato spesso definito un regista dei buoni sentimenti - come se questo fosse eventualmente un difetto - ma gli aspetti amari e beffardi di film come Regalo di Natale, Impiegati, Ultimo minuto (con un grande Tognazzi, un film sul calcio finalmente fatto da chi sembra di conoscerne le dinamiche), per fare solo qualche esempio, contraddicono questa semplificazione.

Inutile fare un elenco dei suoi film, spesso riusciti, ma anche quando non lo sono stati, ugualmente e invariabilmente coerenti con una visione complessiva di impressionante lucidità. Ne cito solo uno che ho molto apprezzato per il modo in cui ha affrontato tematiche spirituali e mistiche, Magnificat, uno dei film di Avati meno acclamati e più da riscoprire.

Pupi Avati ha scritto un libro di memorie, a cura di Paolo Ghezzi. Il libro si intitola Sotto le stelle di un film (Il Margine, 2008; 176 pagine, € 16) ed è molto interessante. Avati parla dei suoi film, ma parla anche e soprattutto di sé, della sua famiglia, della sua storia, dei suoi sogni e di come ha cercato di realizzarli, finendo in sostanza per realizzare il sogno di riserva (il primo, quello titolare, era di essere un clarinettista jazz). L’aneddotica è ricca, ma quello che più spicca sono le considerazioni di Avati sulla vita, sulla sua filosofia di vita. I suoi inizi e il suo arrivo a Roma da outsider sono descritti in modo simpatico e si capisce perché, in fondo, Avati sia rimasto tale, un outsider di lusso dell’industria cinematografica, anche dopo tanti anni, essendo riuscito a edificarsi una nicchia, uno spazio nel quale ci sono solo lui e i suoi film.

La seconda parte del libro, di dimensioni più contenute, è scritta dal fratello Antonio, inseparabile collaboratore e produttore di Pupi. Qui le considerazioni si fanno meno filosofiche, meno mistiche, più ironiche e talvolta insolitamente puntute nei giudizi sui singoli e sulla situazione dello spettacolo in Italia. Traspare una personalità diversa, ma complementare.

Ricco il corredo fotografico, con molte foto di famiglia e dai set anche dei film più sconosciuti - come Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas... gli indemoniati - a dare valore aggiunto a un libro già di per sé molto utile e brillante. Un libro che si legge d’un fiato, scritto in modo diretto, semplice, confidenziale e illuminante a rivelare l’uomo (o, meglio, gli uomini, considerato il non trascurabile contributo di Antonio Avati) che è dietro ai film.

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